“Merica, Merica” Il tango drammatico della “spartenza”
a cura di Teresa Triscari
Povertà, analfabetismo arretratezza; l’unità d‘Italia tradita, quel “Mare del colore del
vino” che è la Sicilia dell’emigrazione narrata da Sciascia; il viaggio che è attesa,
poesia, ma anche dramma.
Come in Omero, come sempre.
E, al centro, la Sicilia, questa Terra di sogno e di dolore, di canto e disincanto, come
ci viene descritta in “Merica, Merica”, il libro di Salvatore Ferlita e Maurizio
Piscopo pubblicato di recente per i tipi dell’Editore Sciascia. Un libro che è un
viaggio nella letteratura, nel cinema, nel costume, nella musica; un compendio di
saggi ben curati e accompagnati da un corredo fotografico e di ascolto.
Il libro, con il suo taglio antropologico che affonda le origini in esperienze familiari, è
un disilluso “cunto”, è il dramma della “spartenza”, parola del nostro dialetto arcaico,
non traducibile in italiano ma che, comunque e sempre, come dice il Mortillaro, è il
“partire, il dividersi l’un altro con pena”.
“Spartenza”, lacerante strappo, sradicamento.
“Spartenza”, segnata dalla roca sirena della nave. La Merica dall’altra parte.
Il libro, presentato di recente al Centro Culturale Di Francesca di Cefalù, ha chiuso un
trittico iniziato l’anno scorso con il libro di De Aglio, “Storia vera e terribile tra
Sicilia e America”, e con lo spettacolo “Storie di tanti, Storie di migranti”
aprendo un dibattito interessantissimo sul dramma della “spartenza”, vera filologia
linguistica che ha avvinto tutti.
Sul tema della “spartenza”, appunto, Caterina Di Francesca l’anno scorso, in “Storie
di tanti”aveva declinato tutti i suoi linguaggi, non solo d’interpretazione e di mimica,
ma anche di ricerca d’archivio come quella che ha portato alla splendida stesura del
testo “Donna Angelini”, e non solo.
Quella “spartenza” che, in quell’occasione, era stata commentata dalla musica
struggente e robusta, carica di amara nostalgia, vibrante e scandita, secca a tratti, che
si sprigionava dai tasti guidati con maestria e passione – vero esempio di agilità di
linguaggio musicale!- da Liana D’Angelo; note che sono tornate l’altra sera con
“Merica, Merica”. Una sinfonia di linguaggi, un’articolazione di dati. Quel dramma
della “spartenza” che suona tanto forte anche in quella poeticissima declinazione
linguistica di Borgese a proposito di quel “mare d’Imera tagliato a spicchio dietro
l’ultima quinta” dove si legge tutta l’amarezza di chi è costretto a lasciare la sua
Polizzi, arroccata lì, sulle sue acropoli, con tutte quelle bellezze di architetture
irripetibili. Lui, Borgese, che rifiutò di firmare l’atto di fedeltà al fascismo.
Quella “spartenza” di cui ha saputo ben parlare Giuseppe Saja nella sua fine e
composita analisi di critica letteraria che ha ricordato anche l’emigrazione in
Germania.
Note di andata e di ritorno, un trittico che ha preso forma trasformandosi in un
unicum; un itinerario storico- musicale guidato con sapere da Salvatore Ferlita e
interpretato con passione da Maurizio Piscopo che, con quella carrellata di canzoni e
ricordi, in simbiosi con la sua fisarmonica danneggiata da un rocambolesco viaggio in
aereo, ha voluto restituire la Sicilia alla Sicilia.
Un dialetto, quello siciliano, cui Piscopo ha fatto ricorso per esprimere la forza dei
suoi sentimenti, un dialetto che ha tutta la pregnanza del greco, del persiano e delle
lingue indoeuropee. Un dialetto che è quello dei luoghi, dei barbieri innanzitutto, dove
lui ha raccolto materia ed emozioni, odori e colori, che è quello delle aule delle scuole
elementari di una cinquantina d’anni fa, dove lui è stato insegnante emerito, con i
banchi scalfiti e i calamai con l’inchiostro nero e i pennini che sembravano punteruoli.
Il siciliano, una lingua nella lingua.
Simpatia e poesia, quella che ha trasmesso Piscopo ma, soprattutto, drammatica
verità. Come quella di Margherita, la bambina che muore durante una traversata e cui
la madre è costretta a dar sepoltura in mare.
“Questa di Margherita è la storia vera” direbbe De Andrè.
Questa di Margherita è un pezzo di storia che tristemente si ripete ai nostri giorni.
“E la storia continua…” direbbe Elsa Morante, mentre Ida continua a cantare
filastrocche a Useppe…
Tanti gli episodi, anche divertenti, accattivanti e pregnanti di nostalgia, che ci ha
raccontato Piscopo. Abbiamo riso e applaudito, soprattutto partecipato. Ma non ci è
sfuggita la sfumatura della sua voce quando ha ricordato che il suo primo Amore è
partito, e non ha fatto più ritorno, per l’America, per gli States, come si direbbe oggi.
Ma allora era solo la “Merica”, mito e paura. La Merica che oggi, per quelli che
arrivano sui barconi, è casa nostra.
La Merica, mito e paura, immagine emblematica dell’attesa spasmodica, della fiducia
stimolata dalla fama non usurpata dell’America come di una promessa vera, come
quella di Charlie Chaplin nel film “ Charlot emigrante”(1917) in cui il grande artista,
nei panni di un emigrante con bombetta, in mezzo ad altri migranti, guarda la famosa
Statua della Libertà con gli occhi del desiderio e del sogno che diventa seducente
visione di libertà e scommessa sul domani.
Quella scommessa che, un secolo dopo, il nostro Giuseppe Tornatore propone nella
stessa scena, con gli occhi di una moltitudine di italiani che si affollano sul ponte della
nave su cui si sono imbarcati, nel film “La leggenda del pianista sull’oceano” (1998),
per specchiarsi nella famosa Statua.
L’America è sempre la stessa. E l’emigrazione -!...- è sempre uguale, in America, in
Germania, nell’Italia settentrionale dove, a Torino, negli anni ’60, si leggeva la scritta
“Non si affittano case a meridionali” che suonava come quell’altra, degli anni ’30,
“Vietato l’ingresso a ebrei e cani”.
“Lamerica” di Gianni Amelio, o “L’Amerika” di Kafka, o quella di Tornatore, è
sempre il dramma dell’emigrazione, della speranza e della “spartenza”, con le sue
valigie legate con il filo della luce e le note drammatiche e forti di Liana D’Angelo.
E’ la voce appassionata e struggente di Piscopo, è la chitarra melodica di Franco
Restivo, è la voce di Chinyery, la nigeriana di Fermo, che piange Emmanuel nella
sua canzone della veglia funebre che non potrò dimenticare, che non dobbiamo
dimenticare, “Dov’eri Dio?”
Dov’eri Dio?