Libri: La zagara di Carlo Colmone
a cura di Teresa Triscari
“Zagara scarlatta”, di Carlo Colmone, è un libro che ha l’andamento del romanzo e la struttura, serpeggiante, ma fondante, del saggio.
Il romanzo racconta la storia, densa anche di sentimenti, di un capo mafia (Vincenzo Albanese) e del suo figlioccio di cresima, Nico Monreale.
Il saggio codifica, in una semantica del linguaggio densa di significati e significanti, con un vocabolario che spesso, rigorosamente, fa ricorso alla lingua siciliana, tutta una serie di dati strutturali della Sicilia, mafiosa e non:
la sicilianità – l’eccessività–il paradosso
tre dati che si compendiano a vicenda ma che trovano nel paradosso la loro sintesi e la ragione d’essere.
Anche il titolo è un paradosso: la zagara, bocciòlo delicatissimo, è anche il fiore dall’odore sensuale, possessivo, che, all’interno del suo pistillo, nasconde tutta una serie di filamenti scarlatti. Un fiore misterioso e struggente, come la Terra di cui è simbolo.
La sicilianità; che tanto ricorda la “sicilitudine” di Sciascia e, ancor di più, quella “crosta” di cui, nel “Gattopardo”, parla il principe Fabrizio Salina allo Chevalley (“bisogna farli partire subito, a vent’anni la crosta è fatta”).
La sicilianità, come categoria metafisica, condizione esistenziale o stato antropologico dell’essere siciliano; come concentrato di “vizi e virtù”, come identità insulare, ma di un’isola senza giurisdizione e confini definibili. Identità di mare aperto e di terra: aspra, dura, severa, eppure accogliente, ospitale.
E’ un’analisi serrata e sottile quella di Colmone, appassionata direi, che va dalla zagara inebriante dei feudi dell’Albanese (340 ettari!) alla “chiazza” che viene misurata ogni giorno dalla “passiata” di chi deve occupare il tempo in mancanza di lavoro e di circoli culturali.
Un’analisi su una terra dalla duplice polarità e dai costanti contrasti: di luci e di tenebre, di comico e di tragico, di canto e disincanto, di poetica visionarietà e di freddo e impoetico raziocinare. Di miti ancestrali..
La sicilianità: “una razza strana, semplice e complessa“, come la definisce lo scrittore, risultato e risultante di secoli di domini e sovrapposizioni culturali.
La sicilianità, un carattere peculiare.
“Nessuno può imparare a fare il siciliano, se non è siciliano”, dice l’autore nella sua nota introduttiva, ed è quasi un monito.
Parafrasando Totò, “Siciliani si nasce!”
Anche in Colmone, come in Sciascia, ironia e amarezza. Tanta! Ma tanta analisi.
La sicilianità, con la sua eccessività, la sua megalomania, il suo paradosso è un DNA, che si ritrova persino nella mafia esportata. In America. Ricordiamo “L’onore dei Prizzi” di Richard Condon. Ricordiamo il grande Denis Mack Smith che traccia un serrato e spietato profilo di quello che lui definisce “sicilianesimo”.
La sicilianità, che è spesso un’accusa o una condanna predefinita, come dice lo stesso, indimenticabile, Michele Pantaleone o come si legge nel film di Francesco Rosi “Il bandito Giuliano” ( “maresciallo, quante volte dovremo scontare il peccato di essere nati siciliani?”).
L’andamento del libro, abbiamo detto, è quello del romanzo.
Un romanzo-saggio dove vengono analizzate, prima di tutto, le cause antropologiche, sociologiche, ma anche quelle storiche e psicologiche del fenomeno. Un’analisi che si addentra in un mondo dove, come diceva Pirandello, il “ sembrare occulta sempre l’essere” e che affonda le sue origini a Verga, alla “roba”; ai “Vespri siciliani”, al movimento separatista, al principio “du figghiu masculu, “u masculu” per antonomasia, che consegnerà alla Storia nome e beni (anche quelli della madre. E quindi la donna sarà, in modo ineluttabile, e codificato, per sempre, una sfruttata!)
Un’analisi che si fonda sul concetto di fedeltà che coinvolge persino Carmela, la cameriera, che finirà ammazzata per sfregio nei confronti dell’Albanese che ha tradito la “Famiglia” e appesa al soffitto a testa in giù con gli occhi sbarrati su quella casa sulla quale lei fedelmente aveva vegliato e che ora è lì, ridotta ad una polvere di miseri frammenti. Una casa da cui il Padrino uscirà con il ritratto della moglie e un geranio bianco tra le mani fino a quando sarà stroncato insieme a Nico da una raffica di spari.
Concetto di fedeltà, di onore.
Fedeltà o totale asservimento?
E qua psicologia, storia, sociologia, antropologia si fondono e si confondono fino a far diventare la Sicilia metafora del mondo.
E qua torniamo al concetto del Ventennio fascista “Credere, obbedire, combattere” ma torniamo anche al vecchio adagio siciliano “megghiu cumannari ca futtiri” ricordato anche da Sciascia e che, forse, ripercorre proprio una massima dello stesso ventennio “meglio un giorno da leone che cento da pecora”
Dunque, il romanzo di Colmone ci fa entrare in una spirale storico-psicologica-sociale dove i personaggi, pirandellianamente, sono alla ricerca di un’identità; la loro intima, storica identità che rispecchia, poi, tutte le loro ataviche frustrazioni: don Vincenzo Albanese si affranca dalla sua condizione di guardia campestre grazie alla scalata sociale in “Cosa Nostra” e Nico esce dalla sua condizione di frustrato affettivamente affiancandosi all’Albanese di cui diventa nume tutelare e giustiziere. Nico, traumatizzato e frustrato affettivamente, angelo e demone, con i suoi occhi azzurrissimi su di una carnagione araba e un corpo prestante, espressione di quella Sicilia incrocio di culture diverse ma anche di violenze diverse; Nico, Giano bifronte, che dall’aristocratica e superba madre spagnola prende alcuni caratteri, forse i più oscuri. Nico, un mistero per lo stesso Padrino. Un mistero in una Terra che è di per sé, ancestralmente, un mistero. Nico, che all’età di 10 anni , nel padrino che freddamente spara al proprio cavallo azzoppato, vede il forte che ridà la vita al cavallo. Amore e morte dunque, passioni in un certo senso da “Sturm un Drang”. Romantiche, come, in un certo senso, romantico è il pentimento dell’Albanese che ci riconduce all’Innominato de “I Promessi Sposi”. Quel “senso di fastidio” dell’Albanese ricorda tanto quell’”uggia” che avverte l’Innominato. E fra Mariano, che potrebbe essere per l’Albanese quello che era stato il cardinale Federigo per l’Innominato, fa vacillare le divisioni degli esseri umani in cinque categorie: uomini, mezzi uomini, ominicchi ruffiani e quaquaraqua.
La zagara, ferita dalle mille efferate uccisioni, ma ferita soprattutto nel suo essere albero a seguito della spedizione punitiva nei confronti dell’Albanese (gli alberi vengono tutti impietosamente segati) è però sempre qua con il suo candore pudico e offeso, con il suo profumo sensualissimo e struggente, con il suo mistero. E’ qua che chiede di essere riscattata dai mille oltraggi, e ci ricorda quel passo del dantesco Pier delle Vigne dove il rametto troncato, lamenta “perché mi spezzi”?
In certi momenti la zagara diventa quasi la protagonista del romanzo, come “Il giardino dei Finzi Contini” di Bassani dove il Giardino ritorna di continuo con la sua bellezza e la sua fascinazione.
Ma il vero tradimento, in questo libro, non è tanto e solo quello dei pentiti ma, soprattutto, quello dei non pentiti: del magistrato, il dottor Matteo Crisafi, che si precipita a far sapere a “Cosa nostra” che l’Albanese sta “cantando” e quello del suocero dell’agente di polizia Gabriele Cangelosi che fa la soffiata che l’Albanese, insieme alla scorta, si sta muovendo dalla caserma di San Cataldo per andare nella sua casa di Vallombrosa (l’Albanese vuole rivedere, per un’ultima volta, le sue cose).
Ma c’è l’ultimo capitolo, “Operazione Primavera” dove, il lavoro iniziato dall’Albanese con la sua confessione, viene portato a termine dalla magistratura e dalle forze dell’ordine e che si conclude con un vero colpo di scena: con il dottor Matteo Crisafi, con la toga ancora addosso, che “attraversa i corridoi del tribunale fra un’ala allibita di impiegati, funzionari, cancellieri e colleghi. La stessa sorte, continua Colmone, toccò, contemporaneamente, ad un Magistrato del Tribunale minorile, al Presidente della Corte d’Appello, ad un giudice dell’Ufficio Istruzione e ad un anziano sostituto Procuratore della Repubblica”.
La mafia, uno stato dentro lo Stato, appare in tutto il suo scandaloso, incredibile, paradosso. Maschere nude!
Ma è proprio qua che la zagara torna candida ricacciando i suoi rigagnoli scarlatti all’interno del pistillo, così come la zagara è. E’ qua che la zagara diventa mito al pari di Proserpina che mi sembra, da parte dell’autore, un altro messaggio di speranza letto in chiave di psicologia sociale: che cioè quella vocazione alla violenza che fa parte del DNA dei siciliani possa rientrare nei suoi anfratti e dormire per sempre. Il sonno di cui parla il principe Fabrizio Salina ( “Il sonno, caro Chevalley, il sonno è ciò che i siciliani vogliono ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare”). Il sonno del Gattopardo si potrebbe così trasformare nella magia del sogno che l’Autore pone ad apertura del libro tra i ringraziamenti, e che è poi il sogno di tutti noi. Che corrisponde, soprattutto, alla convinzione che ha accompagnato l’operato di Giovanni Falcone che soleva dire che la mafia, come tutte le cose umane, ha un’origine e avrà una fine.
Il romanzo diventa, a questo punto, metafisico, onirico e l’impegno civile dello scrittore fa tutt’uno con una certa, latente, ma presente forma, di nomadismo poetico.
E per concludere, mi piace ricordare la citazione posta ad epigrafe del libro: un passo di N. Dornand,
“Nessun essere umano può evitare di partecipare alla battaglia della vita, ma solo scegliere se essere spettatore, subendo e perdendo, o protagonista, combattendo, cambiando e vincendo”.